Distanze in edilizia: interesse all'impugnazione e decorrenza dei termini per ricorrere

6 aprile 2020

Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 7 febbraio 2020 n. 962

Il Consiglio di Stato consolida l'orientamento secondo il quale, in tema di distanze, la ^vicinitas^ non rappresenta di per sé un dato decisivo per fondare l'interesse ad impugnare mentre il termine entro il quale proporre ricorso va calcolato a partire dall'inizio dei lavori e non dalla loro ultimazione.

La fattispecie

Soggetti proprietari di fabbricati residenziali siti in prossimità di un’area ove il Comune di Padova aveva autorizzato la realizzazione di un intervento consistente nella demolizione di un immobile esistente e nella successiva realizzazione di un nuovo edificio, impugnano avanti il TAR Veneto il permesso di costruire rilasciato dall'amministrazione e le successive varianti.

Deducono, tra l'altro, le ricorrenti che il realizzando corpo di fabbrica sarebbe in contrasto con il disposto dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, che impone - nell’ipotesi in cui tra edifici che si fronteggiano si interpone una via pubblica - il rispetto di distacchi maggiorati della larghezza della strada, prevedendo, altresì, un distacco minimo per ciascun lato.

3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- ml.   5,00 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
- ml.   7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10,00 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.

La sentenza di primo grado (TAR Veneto, Sez. II, n. 873/2018)

Con sentenza n. 873 del 4 settembre 2018 (estensore Valletta), il TAR Veneto, Sezione Seconda, esaminando le eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso sollevate dal Comune resistente e dalla società controinteressata, prende le mosse da quella relativa alla carenza di interesse per dichiarare il ricorso non sostenuto da un interesse concreto.

Le deduzioni sviluppate in punto di interesse all’impugnazione da parte dei ricorrenti, appaiono infatti, ad avviso del Collegio, connotate da genericità, soprattutto avuto riguardo alle concrete caratteristiche del contesto nel quale l’intervento è destinato a realizzarsi, tali da non soddisfare i parametri delineati dalla giurisprudenza amministrativa secondo la quale

il solo criterio dello stabile collegamento territoriale con il contesto nel quale è destinato a sorgere l’intervento edilizio contestato non può essere considerato, di per sé, dato sufficiente a dimostrare l’esistenza di un concreto pregiudizio a carico di chi invoca l’annullamento del titolo abilitativo, quanto meno in tutti i casi in cui la modifica del preesistente assetto edilizio non si dimostri ictu oculi, ovvero sulla scorta di sicure basi statistiche tratte dall'esperienza, pregiudizievole per la qualità (urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell'area in cui insiste la proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile di comportarne un deprezzamento commerciale.

Diversamente ragionando - sollevando cioè il ricorrente dall'onere di fornire la dimostrazione dei danni (o delle potenziali lesioni) ricollegabili all'avversata struttura - se ne dovrebbe dedurre che i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione siano sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi elevando così un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia necessario far valere un interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione popolare (così Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 4 maggio 2015, n. 1081; Tar Veneto, Sez. II, 15 febbraio 2018, n. 324) contemplata dal legislatore solo in via eccezionale ed espressa (cfr. art. 70 TUEL).

Le affermazioni a proposito del pregiudizio suscettibile di derivare dall’intervento edilizio in oggetto al "peggioramento dei caratteri urbanistici della zona ed alla violazione dell’equilibrio urbanistico del contesto”, l'“aumento di traffico e confusione (con) pregiudizio per la qualità ambientale dell’area” e l’eliminazione della porzione a giardino in precedenza esistente sul lotto interessato dall’intervento, non valgono - ad avviso del TAR Veneto - a superare l’eccepita carenza di dimostrazione dell'interesse ad agire.

Con la sentenza indicata il Tar condivide dunque l’eccezione di difetto di interesse delle ricorrenti prospettata dal Comune di Padova e dalla società
controinteressata, dichiarando il ricorso inammissibile.

La sentenza di secondo grado (Cons. Stato, sez. IV, n. 862/2020)

Le ricorrenti di primo grado ricorrono in appello lamentando:

  • da un lato di aver puntualmente indicato sia la loro qualità di proprietarie di immobili finitimi all’area interessata dall’attività edilizia e dunque la loro posizione qualificata, attuale e concreta alla verifica della compatibilità del fabbricato assentito con il permesso di costruire impugnato alla disciplina urbanistico-edilizia di riferimento, sia gli elementi che, nel loro complesso, rendevano palese come l’intervento edificatorio comportasse un deterioramento dell’assetto urbanistico-edilizio della zona;
  • dall'altro che, in ogni caso, la legittimazione alla proposizione del ricorso, nonché l’interesse a ricorrere, per l’annullamento di un titolo edilizio discende proprio dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato, senza che occorra effettuare indagini in ordine al concreto pregiudizio che i lavori assentiti siano in grado di produrre per il soggetto che propone l’impugnazione. 

La Sezione Quarta del Consiglio di Stato va di diverso avviso e, con sentenza n. 862 del 7 febbraio 2020 (estensore D'Angelo), conferma la decisione del TAR Veneto.

Il dies a quo per l'impugnazione

Il Consiglio di Stato muove anzi tutto dall’eccezione di tardività del ricorso di primo grado, eccezione assorbita dal Tar e riproposta dalle parti appellate in appello.

Sotto questo aspetto la decisione è particolarmente interessante proprio là dove chiarisce, al di là di ogi dubbio, cosa debba oggi intendersi per "piena conoscenza" ai fini della individuazione del momento da cui far decorrere il termine per la proposizione del ricorso.

Anzi tutto: la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, dovendosi ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.

Vi è dunque “piena conoscenza” 

si legge nella decisione,

quando si è consapevoli dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione.

Il che a dire che il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso nell’ambito dell’attività edilizia

deve essere individuato nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area ovvero laddove si contesti (come nel caso di specie), la violazione delle distanza

mentre

decorre dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, ove si contesti il dimensionamento, la consistenza ovvero la finalità dell’erigendo manufatto.

Nel caso di specie, il ricorso era tardivo sin dall'origine, vera l’avvenuta conoscenza dei provvedimenti impugnati in epoca antecedente a quella indicata (4 agosto 2017), d’altra parte desumibile

anche dalla stessa residenza dei ricorrenti in prossimità del luogo di edificazione, dalla presenza del cartello lavori, dal tempo trascorso (circa tre anni fra l’inizio dei lavori nel 2014 e la notifica del ricorso di primo grado il 28 ottobre 2017), dallo stato di avanzamento dei lavori (verbale dei vigili urbani del novembre 2017 sull’ultimazione degli stessi).

Il requisito della vicinitas

Ciò detto, il Consiglio di Stato affronta in ogni caso anche le questioni, sposate dal giudice di primo grado in sede di vaglio preliminare del giudizio, legate all’inammissibilità del ricorso introduttivo per originaria carenza di interesse delle ricorrenti, le quali non avrebbero provato la concreta lesione derivante dagli atti impugnati.

Ancora una volta le argomentazioni delle ricorrenti - secondo le quali il titolo di legittimazione
alla proposizione del ricorso discenderebbe dalla vicinitas, senza che occorra effettuare indagini in ordine al concreto pregiudizio che i lavori assentiti fossero o meno in grado di produrre - non sono condivise.

Con ampia argomentazione, contenente richiami ad altri ordinamenti europei, il Consiglio di Stato sottolinea che la vicinitas può anche fondare la legittimazione ad agire,

ma va poi accompagnata dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il titolo edilizio.

Lo stabile collegamento con l’area interessata dalle opere edilizie non è dunque sufficiente a comprovare anche l’interesse ad agire che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278).

E' pur vero che non è raro rinvenire decisioni, sia pure non recentissime, secondo le quali la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il titolo edilizio, assorbirebbe anche l'interesse a ricorrere.

Così, tra le altre T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, 9 maggio 2012, n. 433, secondo cui la vicinitas ed il danno risentito per la realizzazione dell'opera edilizia in (ritenuta) violazione delle distanze e del carico urbanistico della zona, integrano, rispettivamente, la legittimazione al ricorso e l'interesse concreto ed attuale, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., all'impugnativa, da parte del ricorrente, proprietario di un fondo confinante,

configurando ex se una posizione qualificata e differenziata al corretto assetto del territorio, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione che, in concreto, possa essere riconducibile alle opere compiute.

Ma questa posizione (condivisa anche da Cons. Stato Sez. IV  10 giugno 2013, n. 3184), evidenzia il Consiglio di Stato, è stata ampiamente superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire, secondo ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo (cfr. Cons. Stato: Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente, Sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278 citata; per ultimo Sez. IV, 5 febbraio 2018, n. 707, tutte cit. in sentenza).

In quest'ottica, la sussistenza del requisito della mera vicinitas, non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso,

[...] occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente.

Da ultimi Cons. Stato Sez. II, 19 febbraio 2020, n. 1260 e T.R.G.A. Trentino-A. Adige Bolzano, 10 gennaio 2020, n. 4.

Elementi di diritto comparato in tema di interesse ad agire 

Interessanti spunti in chiave comparata sono offerti dal Consiglio di Stato il quale ricorda come in altri ordinamenti europei (ad esempio in Francia), a proposito dell’interesse a ricorrere contro un permesso di costruire,

si richiede, nell’idea di considerare anche la sicurezza giuridica dei titoli autorizzatori (nel caso in esame rilasciati 3 anni prima), la dimostrazione puntuale dello stesso (cfr. Conseil d'État, 17 marzo 2017, n. 396362 e l’art. L-600.1.2 del Code de l'urbanisme, nel testo introdotto con ordinanza n. 2013-638 del 18 luglio 2013, che stabilisce che l'impugnazione di un permesso di costruire richiede la dimostrazione che l'intervento edilizio sia tale da incidere in modo diretto sul godimento di un bene da parte del ricorrente).

La ricerca del collegamento del diritto amministrativo italiano con il diritto comuninatario e, più in generale, con i principi generali degli altri ordinamenti caratterizza da tempo la giurisprudenza amministrativa.

Si pensi a TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 416 del 4 marzo 2020 (estensore Cordì) (link), introdotto per la condanna di una Amministrazione comunale al risarcimento dei danni subiti in pretesa violazione dei doveri di correttezza e buona fede ex articoli 1337 e 1338 c.c., dove l'estensore si interroga se nella vicenda

possa sussistere una effettiva “Vertrauenshaftung” o responsabilità per lesione dell’affidamento alla stipula della convenzione urbanistica derivante da una condotta comunale non conforme ai generali doveri di correttezza

concludendo che la deliberazione del Consiglio comunale di approvare un permesso di costruire in deroga

determina l’insorgere di una specifica obbligazione pur senza obblighi primari di prestazione (i noti “Schuldverhältnisse ohne primäre Leistungspflichten” della dottrina tedesca).

In conclusione: la particolare sensibilità del diritto amministrativo ai principi generali dell'ordinamento e la sua tradizionale refrattarietà alla catalogazione in codici, impone di ragionare in modo sempre più evidente in termini comunitari, in un'ottica di armonizzazione con i principi universali recepiti dalla Carta Costituzionale.

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